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Via delle Camelie

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Via delle Camelie

31 marzo - 21 aprile 2021

Le recensioni di Anna Violati, coordinatrice del Circolo di Lettura

Protagonista del romanzo ancora una volta è una figura femminile indimenticabile: Cecilia. E’ il racconto di un viaggio verso il buio e la sofferenza, nel quale Cecilia perderà progressivamente la propria innocenza fino a una disillusa maturità. Le descrizioni ricche di particolari, il monologo interiore e il modo evocativo di sentimenti, emozioni e stati d’animo, permettono al lettore di entrare nella psicologia del personaggio e di condividerne disavventure e sofferenze. Cecilia è un'antieroina moderna in apparenza fragile, che lotta per la propria indipendenza in una società patriarcale e maschilista. Il libro, quasi come un diario, inizia con il racconto della protagonista in prima persona. ”Mi abbandonarono in Via delle Camelie accanto al cancello di un giardino”. Fin dalle prime parole la protagonista chiarisce le caratteristiche della sua condizione di ”trovatella”, come anche la motivazione del titolo del libro. L’accenno al giardino anticipa una presenza costante nei romanzi della Rodoreda. I fiori, il giardino, la natura più che un riferimento ambientale e ornamentale, diventano rifugio e fuga dalla realtà. La notte seguente al suo ritrovamento, di notte fiorì un cactus che ”viveva di muro e di malta. Un fiore a foglie rugginose di fuori e bianco latte dopo le prime foglie, con dentro una frenesia di petali arruffati”, che fioriva di notte una volta all’anno sempre nello stesso giorno e non durava molto. E’ quasi simbolo e metafora dell’eccezionalità dell’evento e dell’esistenza di Cecilia. E’ un romanzo di formazione in cui si assiste alla progressiva presa di coscienza del mondo da parte della protagonista. Era stata trovata da un vigilante che l’aveva lasciata davanti alla casa di due anziani e ricchi coniugi, Jaume e Magdalena, che decisero di prenderla con loro. La piccola cresce circondata dall’affetto e dalle cure un po' soffocanti dei genitori adottivi che spesso l’inducono a brevi fughe da casa, girovagando senza meta per le strade di Barcellona, affascinata dalle Ramblas, dal teatro Liceu, dalla gente. L’inizio della guerra civile la vede dodicenne e con il primo mestruo, ”avevo sangue dentro e ascoltavo la vita del sangue”, che lei, nei suoi ricordi, mette in relazione con la guerra, il bombardamento del municipio e la scarsità di cibo. Ha una visione appannata della realtà, che vive attraverso uno specchio deformato, quello della sua ”meraviglia” fermamente attenta a ciò che in lei, nel suo animo succedeva. “Quello che sentii non si può spiegare a parole, io non ero come gli altri, perché ero diversa, perché lì da sola circondata da asciugamani e dal profumo di saponette fuori dello specchio ero chi fa innamorare e dentro lo specchio ero l’innamorato”. Aveva scoperto la sua femminilità e la sua bellezza e si era innamorata di sé. Compagno delle sue fughe infantili è Eusebi, un ragazzo che vive nelle baracche e che, perso di vista allo scoppio della guerra civile, rivedrà due anni dopo. Ricominciano ad uscire insieme, mentre lei vive come assonnata, finché una sera vanno nella sua baracca e da quel momento non torna più a casa. Il ragazzo conduce un’esistenza precaria, rubando insieme a un vecchio compare. Quando viene imprigionato, Cecilia va a vivere con un altro baraccato, Andres, che dopo appena cinque mesi muore consumato dalla tisi. Seguono, per sopravvivere, tentativi maldestri di cucire camicette, da cui ricava scarsi guadagni. Una notte, presa la borsetta, magra come un asparago se ne andò sulla Rambla a fare la vita. Dopo alcuni mesi rimase incinta, abortì grazie all’aiuto di una sua vicina, ma fu portata in ospedale da cui uscì con la curiosità non soddisfatta di sapere il sesso del feto, non abbastanza formato. Ritorna a fare la vita legandosi a molti uomini in cambio di soldi, protezione o affetto. Rimedio alla solitudine, al vuoto sono le braccia degli uomini in cui si rifugia per amore, desiderio, necessità e disperazione, anche se questo non le risparmia crudeltà e dolore. Per fame accetta di vivere anche con un locandiere geloso che non le piace e che la segue spiandola nelle sue uscite. Senza fare niente per provocarlo, ha un altro aborto. Resiste per due anni poi si rifugia a casa dell’amica Pauline, tramite la quale conosce Marc, uomo misterioso, geloso. Entra in una spirale di violenza, solitudine e sofferenza, dalla quale sembra non potersi liberare. Angosciante è l’atmosfera del mezzo appartamento preso in affitto dall’uomo, diviso dall’altra metà da una porta chiusa a chiave. Le accadono cose stranissime: oggetti spostati, rumori di martello, squilli di telefono, fotografie, che poi spariscono, della moglie con i figli di Marc o di lei quando per sentirsi meno sola andava al "Caffè delle Felci." Nota una macchina color caffellatte parcheggiata sotto la casa e un sarto che l’osservava dall’appartamento di fronte al suo. Per timore di essere considerata pazza non rivela nulla a Marc. Ma quell’atmosfera di follia che l’avvolgeva, invece di cessare, andava crescendo. Il rapporto con l’amante andava raffreddandosi. Eladi un amico di Marc, che aveva un occhio bendato con una pezza nera, la convince ad andare a vivere con lui nel suo appartamento. Egli inizia a farle bere grandi quantità di cognac e forse le somministra degli stupefacenti, facendola girare nuda in casa, avendole nascoste le valige con gli abiti. Eladi non smetteva di farla bere, voleva che dormisse, se non dormiva sarebbe morta. Avvolta in un telo da bagno distesa su una poltrona si rendeva a malapena conto del trascorrere del tempo, non capiva quello che vedeva e non poteva pensare. Spesso veniva portata in braccio a letto perché non si reggeva in piedi. Nelle pagine dei capitoli 37, 38, 39, con grande maestria la scrittura raggiunge il massimo della tensione narrativa, con evocazione di atmosfere oniriche e angoscianti e di eventi che Cecilia percepisce con un miscuglio di sogno e realtà. Non vengono descritti nella loro scabrosità i giochi sadici a cui la ragazza è sottoposta, ma solo la percezione che ne ha, nel pieno della sua visionarietà. Una notte Eladi ”fece con lei quello che volle”. Poi entrò una grande ombra con la testa avvolta con una fascia viola che le mise una cosa fredda tra le cosce. ”Venivano tre volte, perché erano tre e facevano la stessa cosa, compreso il freddo tra le cosce, di giorno e di notte .” Ma tutto questo sembrava appannato e quanto più chiaro voleva vederci, tanto più appannato le appariva. Viveva di visioni. "Devi dormire", diceva in continuazione una voce nascosta e Eladi le faceva bere cognac, mentre lei aveva visioni di cimiteri dove con Eusebi rubava fiori dalle corone, di una creatura con le braccine, di una fiamma rasente agli occhi azzurra e lilla con una cresta corallo e di due angeli. Uno che sembrava Eusebi la guardava, l’altro voleva darle un mazzo di fiori di pietra. Per poter uscire da tale situazione Cecilia si taglia una vena del braccio con una lametta dopo essersi fatta il segno della croce e mentre vede il sangue palpitare perde i sensi. Viene salvata: “mi fecero vivere ed ero incinta.” Ma la vendetta nei suoi confronti non era ancora giunta al termine, perché viene trascinata di nuovo nell’appartamento di Marc, che le fa vedere le foto scattate dal sarto, quando lei andava al Caffè delle Felci e quando ne usciva. Viene picchiata selvaggiamente e dolorante, strattonata in macchina, viene lasciata in strada con una croce di brillanti al collo, quale ricompensa di fine prestazioni! Vaga per le strade sentendo un grandissimo dolore al ventre. Quando il dolore si faceva troppo forte si fermava, per riprendere poi il cammino quando era meno forte. Andava da un panchina a un tronco di tiglio e da questo a una panchina, finchè delle braccia l’afferrarono, mentre lei perdeva i sensi. Percepisce come visioni le cure ricevute da una suorina in una clinica, in cui trascorre settimane in dormiveglia, per un difficile aborto che non le consentirà di avere figli. Dopo avervi trascorso alcuni giorni senza rendersi conto di niente, accudita da una ragazza, si sveglia definitivamente in una casa bianca a un piano, circondata da un giardino, con sette platani, che dava su un torrente. Dietro aveva un chiosco coperto da un roseto di rose tea con due sedili di pietra. La casa era di Esteve, il signore da lei ammirato al Caffè delle Felci che, saputo che lei non aveva né parenti né casa, l’aveva ospitata dopo la dimissione dalla clinica in una sua casa, dove da anni non abitava nessuno. S’innamora di questo uomo, finge di essere sposata con lui e di avere un bimbo nella culla. Il sogno, e con esso la relazione, finisce quando lo vede uscire dal teatro Liceu con la moglie. Egli le donerà, con atto notarile, duecentomila pesetas e la casa con il giardino, che diventerà il suo rifugio. Cecilia da questo momento continuerà ad avere altri rapporti con uomini ricchi, ma comportandosi cinicamente e interessata, come gli uomini. Diventa ricca investendo soldi, avrà un altro appartamento grazie ad un uomo politico non più giovane, che le passa uno stipendio mensile. Avrà delle domestiche e una macchina con autista a disposizione. Nonostante ciò Cecilia rimane un’eterna idealista, non smette di fantasticare, continua a sognare gioielli, abiti principeschi, è un personaggio femminile trasognato e concreto, attento alle minuzie quotidiane, seppure teso verso un’ideale visione del mondo e della vita. Insieme ai fiori e al giardino, gli oggetti e gli indumenti quotidiani sono le uniche ancore di salvataggio, che ingigantite con la propria deformata attenzione, la distraggono dalla sofferenza e dall’impossibilità di trovare un compagno con cui stringere un rapporto affettivo. Cecilia come Colometa e Teresa è un alter ego dell’autrice. Mercè Rodoreda, spinta dalla nuova coscienza narrativa maturata nell’esilio, insieme all’esperienza della guerra e della povertà, mostra la volontà di perseguire la difesa della libertà. Cecilia è la libertà che si piega ma non si arrende. Drammaticamente sola nonostante gli amanti, lo sguardo ad un altrove ideale fatto di piccole cose: i fiori, i colori del cielo, i tigli, i luoghi amati della città di Barcellona, i profumi attutiscono in parte il dolore di vivere.
Proprio il profumo dei tigli e le perline cadute dalla frangia del vestito, simili agli anicini che il vigilante le dava da bambina, la riporteranno ai luoghi dell’infanzia in via delle Camelie. La visita al vecchio vigilante le rivela un ritrovato senso d’identità. Era stato lui a scegliere e scrivere il nome di Cecilia sul cartellino appuntato sul bavaglino e a decidere di lasciarla davanti al cancello del giardino dei signori Jaume e Magdalena, ormai morti. Non aveva visto chi l’aveva abbandonata: ”era un’ombra che correva”. Alla domanda del vecchio che cosa avesse fatto nella vita, vorrebbe rispondere: "cercando cose perdute e seppellendo passioncelle”. Ma finge di non aver sentito. Nel condividere i ricordi della sua infanzia, le sembra che il soffitto sia più alto, la finestra più ampia e lui più grande. ”Tutto era più grande e io più piccola, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la faccia tra le mani aperte.” Sarà per Cecilia una rinascita e una nuova epifania?
 
Mercè Rodoreda, Via delle Camelie, La nuova frontiera, 2009