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5 - 11 settembre 2020

La rubrica del sabato

La somma dell’area dei quadrati costruita sui due cateti di un triangolo è uguale all’area del quadrato costruito sull’ipotenusa

Carissimi lettori, eccoci di nuovo alla rubrica del sabato. Questa settimana vogliamo parlarvi delle strane regole della scuola di Pitagora.

Il teorema di Pitagora è forse ciò che ai nostri tempi rende più celebre questo personaggio dell’antichità, o perlomeno la prima cosa che ci viene in mente quando sentiamo il suo nome.

Matematico e filosofo, ma anche taumaturgo, astronomo e politico, nacque a Samo tra il 570 e il 580 a.C. e morì a Metaponto nel 495 a.C. Fondò a Crotone una celebre scuola filosofica, nella forma di una comunità religiosa, nella quale filosofia e vita si intrecciavano e creavano una sorta di sodalizio; infatti, gli iniziati della scuola, chiamati matematici, vivevano tutti insieme rispettando una disciplina ferrea e rinunciando a ogni forma di proprietà privata.

Probabilmente tutti ricordiamo che al centro della filosofia pitagorica c’era l’idea che la matematica e la geometria potessero essere la chiave per l’interpretazione dell’essenza della realtà. In pochi sanno però che, oltre al ruolo centrale della matematica, nella scuola pitagorica c’erano una serie di precetti da seguire, alcuni dei quali ad una prima lettura non posso che farci sorridere. Nonostante l’apparente assurdità di alcune indicazioni date dal maestro, queste venivano seguite rigidamente dai suoi discepoli, tanto che una serie di aneddoti dell’antichità ci illustrano proprio la dedizione cieca dei pitagorici alle loro leggi; a questo proposito Giamblico ironizza affermando che per i seguaci di Pitagora era “difficile diventare amici con estranei”. Innanzitutto nella scuola pitagorica era proibito mangiare carne. Il vegetarianismo era regola d’obbligo, dal momento che la scuola sosteneva la metempsicosi, cioè la teoria della trasmigrazione delle anime dopo la morte: era dunque meglio evitare di mangiare la carne, per non rischiare di ingerire anche l’anima della propria nonna o della propria prozia.

Tra le varie bizzarre raccomandazioni della scuola, come “non scavalcare le travi” o “non addentare una pagnotta intera”, esiste un precetto in particolare da sempre oggetto di interesse e di varie interpretazioni: il divieto di mangiare le fave. Giamblico ci racconta che un gruppo di pitagorici in fuga per motivi politici, ritrovandosi di fronte a un campo di fave, preferì andare incontro alla morte anziché attraversarlo. Leggenda vuole inoltre che la morte dello stesso Pitagora sia collegata a un aneddoto simile, durante la sua fuga verso il Metaponto, come scrive Diogene Laerzio in Vite dei filosofi VIII, 1. 

Porfirio nella sua Vita di Pitagora racconta inoltre che una volta in un campo vicino Taranto, Pitagora vide un bue brucare delle fave e che, visto che tra i tanti talenti del filosofo c’era anche quello di parlare agli animali, gli sussurrò all’orecchio di non mangiarle. Sembra che il bue gli obbedì, visse a lungo e si guadagnò la nomea di Bue sacro al santuario di Era. Si è ipotizzato che il veto derivasse da un’allergia di Pitagora o, più generalmente, dalla paura del favismo; un’altra ipotesi invece ricollega questo divieto al cattivo odore delle fave esposte al sole che ricorderebbe quello di un corpo umano in decomposizione. Inutile dire che esistono anche interpretazioni più fantasiose, in particolare tra gli antichi: ad esempio secondo Diogene Laerzio, Aristotele riteneva che il divieto potesse derivare da una somiglianza delle fave ai genitali umani, alle porte dell’Ade, o ancora da motivi politici, poiché nelle oligarchie antiche i magistrati venivano designati con le fave.

Probabilmente non conosceremo mai con certezza l’origine di questo regola e possiamo solo formulare le ipotesi più disparate su quella che rimane ad oggi una curiosità senza risposta.

a cura di Giordana
Progetto Servizio Civile 'Giovani e Innovazione nelle Biblioteche'

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