Sono le dieci del mattinodi lunedì 18 agosto 1969. Jimi Hendrix sta suonando davanti a una folla di quarantamila spettatori. Cinquecentomila persone, o giù di lì, se ne sono già andate durante la notte. Molte per recarsi al lavoro, altre per tornare dalle famiglie preoccupate delle notizie contraddittorie diffuse sul caos relativo al festival di Woodstock.
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Assisto alla performance dal palco, e noto che la massa di gente che se ne va continua ad aumentare. Se n'è accorto anche Jimi, che dichiara: "Andatevene pure se volete, noi stiamo improvvisando. Potete andarvene, oppure restare e battere le mani". Subito dopo Voodoo Child esegue un nff: è quello di The Star Spangled Banner, lo riconosco quasi subito. Suona il brano conferendogli una veste piena di distorsione e feedback. Non ho dubbi: l'inno nazionale non sarà più lo stesso. Jimi è riuscito a cogliere l'insieme di esperienze che ci faceva essere un tutt'uno, e a dargli voce: tutta l'inquietudine e il disorientamento vissuti da noi giovani americani cresciuti negli anni Sessanta si riversano fuori dalle torri di altoparlanti. In un momento assai critico per l'America, il festival di Woodstock diede luce a una nuova comunità che condivideva valori e aspirazioni e credeva nella possibilità del cambiamento; un ideale che avrebbe esportato in ogni parte del mondo. Ci sono voluti quarantanni per assistere ad alcuni dei mutamenti preannunciati in quei tre giorni d'agosto, oggi testimoniati da gruppi ecologisti, da organizzazioni come MoveOn, e dall'elezione del primo Presidente afroamericano (c'è chi sostiene che senza la rassegna del '69 non sarebbe potuto accadere). Con la sua rivisitazione dell'inno nazionale, Hendrix diede voce a un futuro m cui un Barack Obama avrebbe potuto parlare di cambiamento e di speranza al mondo intero. Quarantanni dopo, il «Wall Street Journal» si è riferito alla giornata in cui Obama ha assunto i poteri di Presidente degli Stati Uniti con le seguenti parole: "la Woodstock di Washington".