La storia è straordinaria e al tempo stesso singolare: per il personaggio, il Malato senza nome, certo non aderente ad uno stereotipo comune; per l'insieme delle situazioni, a tratti irreale, teatrale. Ma, pagina dopo pagina, si viene trascinati all'interno della rappresentazione, ci si incuriosisce come in un giallo, nella incertezza del dipanarsi degli accadimenti.
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Virzì, psichiatra, con formazione relazionale, e per di più docente universitario, coglie l'intrigante rappresentazione di Camilleri per una riflessione sul rapporto medico-paziente che è una lezione. Ma le lezioni, si sa, in genere piacciono poco. E allora Virzì ci inganna, non ce la fa sembrare tale, e proprio come Camilleri, ci dice poco a poco, ci trascina senza che ce ne accorgiamo, in un racconto sul racconto. E siamo dentro alla lezione senza accorgercene, rendendocene conto solo nelle ultime pagine, quando, finalmente, il Professore getta la maschera, e fa il suo mestiere. Certo che lezioni così ne avremmo volute tante, lezioni che divertono prima di insegnare, che sembrano più la condivisione di un'opinione o di un'esperienza, anche emotiva, che non una prescrizione. Virzì non ha ricette, non ha prescrizioni assertive, ammette la debolezza dei nostri costrutti teorici rinunciando, proprio nelle ultime righe, alle soluzioni. Si limita a raccomandare, a suggerire, a proporre il proprio sentire. E cosa ci propone? Di narrare, e di ascoltare. Proprio come con un racconto (di Camilleri?).