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Non lasciarmi

Ishiguro, Kazuo <1954- >

Giulio Einaudi editore 2006

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Kathy, Ruth e Tommy sono cresciuti in un collegio immerso nella campagna della provincia inglese. Sono stati educati amorevolmente, protetti dal mondo esterno e convinti di essere speciali. Ma qual è, di fatto, il motivo per cui sono lì? E cosa li aspetta oltre il muro del collegio? Solo molti anni più tardi, Kathy, ora una donna di trentun anni, si permette di cedere agli appelli della memoria. [...]
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  • 1 / 1 utenti hanno trovato utile questo commento
    18/02/2019
      

    Deludente

    Lento, ovattato, inconsistente. il tema trattato e' interessante ma i personaggi si perdono dietro frasi dette o non dette, piccoli oggetti, avvenimenti trascurabili. mi aspettavo un attaccamento disperato alla vita, grandi ed impetuosi sentimenti, ribellione ad un destino crudele. il titolo non rende l'idea.
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  • 2 / 2 utenti hanno trovato utile questo commento

    Corinna Spirito

    09/03/2018
      

    Mi aspettavo tantissimo, invece, nonostante il bellissimo soggetto, la scrittura di Kazuo Ishiguro non mi ha emozionata. Non sono riuscita ad appassionarmi davvero a Ruth, Kath e Tommy., pur comprendendo il loro dramma
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  • 11 / 11 utenti hanno trovato utile questo commento
    16/11/2017
      

    Lentamente scoprirsi umani

    Non sempre il titolo rappresenta al meglio un’opera, centrandola nel suo cuore, nella sua parte più intima. "Non lasciarmi", "Never let me go" nella versione originale, invece, raggiunge in maniera diretta una zona colma di senso. "Non lasciarmi" è un libro sulla morte, e quindi sulla vita, che dalla morte riceve misura e senso. La paura di venire abbandonati e di sprofondare nel vuoto lasciato da chi se ne va permea il romanzo attraverso un tema musicale ricorrente che ci ricorda che, di fronte alla morte, siamo tutti esseri umani: noi, quelli veri, e loro, i cloni, immagini di umani e loro stessi umani. È la paura di morire che ci rende freddi creatori di cloni, da cui poter prelevare pezzi di ricambio per i nostri corpi malati, e ci trasforma in spietati assassini, quando infine scopriamo che anche le nostre copie hanno un’anima. La paura della morte non muore nemmeno nei nostri cloni, è la nostra crudele eredità. Li fa soffrire quando si avvicinano alla fine del ciclo, e li costringe ad accompagnarsi l’un l’altro al traguardo finale. Gli altri quindi si rivelano non essere gli altri, bensì noi stessi, come in un gioco di specchi. E poiché li abbiamo creati solo per poterli smembrare a nostro uso e consumo, possiamo garantirci una vita serena solo se li allontaniamo da noi ed evitiamo di incontrare il loro sguardo. Li ghettizziamo nei college, fingendo che vada tutto bene, e gli riserviamo delle cliniche, in cui possano vivere coi loro simili e immolarsi alla causa superiore delle donazioni. Non possiamo accompagnarli alla morte, perché questo ci metterebbe in contatto con il loro dolore, i loro sentimenti e il senso della loro vita. Lasciamo che si aiutino tra loro, ricavandone l’ulteriore vantaggio di farli abituare alla necessità di morire, e di portarli a desiderare di porre fine quanto prima al loro travaglio. Pochi uomini osano avvicinarsi all’anima di questa strana tribù, e lo fanno solo durante l’infanzia, il periodo magico di ogni essere vivente, quando il dolore è ancora lontano, e quando tutto è ancora teoricamente possibile, sebbene nessuno osi sovvertire le regole. La narrazione di Ishiguro, pur trattando di temi molto forti, è lieve, sospesa e leggera; ha un ritmo cullante che si infila nei meandri del nostro sentire e parla direttamente al nocciolo del nostro essere uomini, capaci di sentimenti. Progressivamente, con un incedere quasi impercettibile, ci fa avvicinare alle nostre repliche, percepire un sentire comune, entrare in empatia con loro. Scopriamo così che anche loro, che ci illudevamo potessero essere degli essere manchevoli, imperfetti e parziali, creature del nostro intelletto e perciò fredde e razionali, sono invece pieni di sentimenti e provano amore, affetto, invidie, gelosie, paure, dolori, disperazione e rassegnazione. L’autore non gioca coi colpi di scena, la narrazione è quasi piatta, ma procede lentamente e inesorabilmente, crescendo via via d’intensità per arrivare a un climax così denso di emozioni, che la scena finale, seppur ampiamente introdotta e prevedibile, riesce a farci percepire il dolore che provano i protagonisti del racconto e a farci soffrire insieme a loro. La lettura si trasforma così in un’esperienza totalizzante, in cui noi e loro, questa volta molto vicini, moriamo e viviamo, uniti nello stesso microcosmo.
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