Intorno a "Canne al vento" sopravvive un equivoco che è tempo di sciogliere. In genere, infatti, il titolo porta a insistere sul fatalismo che sarebbe proprio dell’arcaico universo sardo dipinto nel romanzo, umilmente rassegnato ad accettare ciò che riserva la sorte.
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Ma nella storia delle tre nobili sorelle Pintor, portate sull’orlo della rovina dal ritorno del debole e dissoluto nipote Giacinto, c’è ben di più e ben altro. C’è lo spettro di Lia, la quarta sorella fuggita in continente, che incombe sulla vicenda insieme a quello di don Zame, il patriarca morto in circostanze oscure. Ci sono le sinistre leggende di folletti e fate crudeli che animano gli sfondi selvaggi della Barbagia. C’è l’eterno conflitto fra istinti e convenzioni sociali, che esplode in passioni represse, al limite dell’incesto. Ci sono i sensi di colpa e il desiderio di espiazione, che conducono ai sacrifici più dolorosi. E poi c’è Efix, il servo di casa Pintor, che l’autrice con coraggio innalza a protagonista e motore della vicenda. Vecchio e malato, preda di visioni scatenate dalla malaria e rimorsi insostenibili, Efix non subisce passivamente i colpi del destino; anzi, si spende sino allo sfinimento per raddrizzare le sorti della famiglia Pintor, dimostrando una volontà indomabile che ha poco da invidiare a quella dei coevi superuomini dannunziani. Minuto eppure solenne, enigmatico e trasparente, il “viso olivastro duro come una maschera di bronzo”, Efix rimane uno dei più intensi e indimenticabili personaggi della narrativa italiana del Novecento.