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1 / 1 utenti hanno trovato utile questo commento04/10/2021
Alla fine del mio soffrire/c'era una porta [cit.]
Siamo in un giardino nel New England, forse in un novello Eden, incomprensibile nei suoi divieti inascoltati. Un quaderno pieno di fiori, conservati a seccare fra le pagine, cui i versi ridanno vita: narcisi, viole di prato, trillium, lamium, bucaneve, clematis blu, crochi… Una sorta di dialogo col sacro, non ancora preghiera, un canto di uccelli, primo pensiero del mondo – come cantava Sereni. E poi grilli che sfregano le ali [si chiamano così?], gatti che non si azzuffano nell’orto. Fra il giardino, i fiori e i suoi ospiti naturali si muove la poesia di Iris Selvatico – premio Pulitzer nel 1993. Dove si nasconde l’essenza di quest’opera che possiamo provare a definire da una parte neoromantica e dall’altra confessionale, alla maniera di Anne Sexton, Anne Carson, Sylvia Plath e Adrianne Rich? Forse nella considerazione che i doni che ci sono stati fatti, il nostro ruolo nella Creazione non stati usati come avremmo dovuto: le nostre anime, dopo tutto questo tempo trascorso invano dall'inizio dei giorni, non avrebbero “dovuto essere immense” e non “piccole cose vocianti” come in realtà sono? Fino a quando – sembra dirci Louise Gluck –continueremo a pensare di essere liberi di ignorare questa tristezza, questa immagine di separazione, questo “campo velenoso in cui viviamo”? La Gluck in una riflessione da creatore Poeta/Dio sulla Creazione. Che cos’è questo compulsare continuo dell’atlante botanico: com’è fatta la scilla selvatica? In sintesi: 18 poesie che parlano di fiori, o meglio “parlate” dai fiori comprese in due serie: Mattutino e Vesper. Il lettore non si lasci ingannare dall’apparente semplicità dei versi, o distrarre dall’eccessiva visceralità introspettiva, perché occorre una buona dose di maturità ed attenzione per intenderne la reale complessità. Buona lettura.Hai trovato utile questo commento?SI NO | Segnala come inappropriato